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Neapolis Festival 2005, il
report
testi di Alfonso Tramontano Guerritore
grazie a : Daniele lama e Luca M. Assane
foto di: Angelo Pesce, Fausto Turi e Luciana Lamanna
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Giovedì
7 luglio, ore 17.30: neapolis start.
L'ingesso non serve che a lasciarmi presagire la sensazione,
riconoscibile fin dall'inizio, di attraversare la possibilità
e osservarla mentre diventa certezza. Cosa aspettarsi da questa
edizione 2005 del neapolis rock festival, dal cast eterogeneo
e indie, rock nel senso più ampio e nobile de termine?
Il verde che circonda la mostra d'oltremare fa da cornice perfetta,
gli alberi attutiscono la calura, gente su gente affluisce,
corpi, movimenti, odori, estate. Passeggio e fischietto tra
me e me, cerco un programma, mi guardo intorno, sembra di essere
in vacanza...
La musica, già, siamo qui per la musica, ma il tempo
è ingannevole come l'ameno scenario di viali e coste
verdeggianti, con i due palchi, vicini e ben delimitati: da
un lato il "Metropolitan stage", dall'altro
l'arena flegrea, imponente e classica. All'ingresso, invece,
ad accogliere gli spettatori, c'è il "Tuborg
Stage", dove nei due giorni di festival passano in
rassegna le band emergenti di "Destinazione Neapolis"
(Phidge, Visione Sinfonica, Foia, Camera 237), "Rockschool"
(The Giggi Esplosione, Gentle Groove), e i gruppi indipendenti
individuati dal M.E.I. (il meeting delle etichette indipendenti
di Faenza).
Il diario d'ascolto comincia con l'introduzione più che
degna degli
A Toys Orchestra, band campana che
apre le danze del "Metropolitan stage" con una sorta
di carillon a tinte scure, un abbraccio tra spettri distorti,
feedback e voci effettate. Le melodie dirottano la musica su
territori malinconici, mentre il cantato inglese, sovente a
due voci, costruisce una resa indie all'insieme. Lo spettacolo
si chiude sul richiamo di una sirena, sul cui dispiegarsi cresce,
insistente, la ritmica.
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A
seguire tocca alle sperimentazioni dei Battles, che predispongono
un campod'attacco sonoro dove in primis costruiscono frequenti
e fitti dialoghi tra chitarre per poi imbastire la corsa al
ritmo, sempre più ossessivo, con la batteria che s'indiavola
sotto i colpi di bacchette, pugni e scansioni micidiali.
Effetti elettronici e rumoreggianti stridori di feedback completano
il gusto, senza sconti all'etere, definitivamente collassato
sotto i percorsi in crescendo. La danza sul palco accompagna
le note, infervorando il pubblico: all'attivo, qualche mini
e tante intenzioni, esperimenti doc col pubblico che assiste
sbigottito e affascinato, perfettamente sintonizzato dal climax
: li rivedremo, o quantomeno, avremo certo voglia di attraccare
i sensi a questo riuscito vascello da guerra, sostenuto dal
possente basso-metronomo a sostegno del suono. In successione,
tocca ai NoMeansNo, tiratissimi e attempati vecchietti,
per modo di dire, che scompigliano l'accolita dei fans, testimoni
di un gradimento a 360 gradi perfettamente rispondente all'offerta
del cast.
Le stilettate compatte intessono il tiro lungo l'intera durata
dell'esibizione, riuscita dimostrazione di anomala e non riscontrabile
"senectute", una vecchiaia apparente dei nostri smentita
seccamente dai fatti. One, two, three, four, e lo scandire per
antonomasia agita il palco, lungo l'intero arco dello show:
rock'n'roll.
Toccherebbe agli Afterhours, ma problematiche extra sonore
lasciano l'amaro in bocca a chi li aspetta con trepidazione:
la resa live del nuovo disco va solo immaginata, e a sorprendere,
in negativo, è la sconsolata constatazione dell'assenza,
per malintesi, presunte pretese e chissà che alro. Non
è affar nostro, visto che il palco passa ai Piano
Magic, e la magia, effettivamente, ripaga delle aspettative
nominali, intessendo lancinanti malinconie distorte sullo sfondo
suggestivo de tramonto, con la voce indolente, triste del cantante
che scivola, inabissandosi nei secondi piani, dietro le chitarre
che immaginano sogni distorti e immersioni di spleen, mantenendo
un equilibrato profilo pop che porta alla mende moti ondosi
e tinte violacee..
Al cambio di palco, sul mainstage dell'Arena flegrea, i Resina,
progetto elettronico in trio con la partecipazione dell'ex 99posse
Marco Messina ad affiancare i Retina.it, che manipolano beat
e sonorità elettroniche, moduli e sinapsi sintetizzate
dal vivo che raccolgono l'attenzione e il notevole gradimento
della platea.
Sembra che, prima di aprire il loro atteso concerto, qualcuno
dei quattro men machine abbia espresso sentiti apprezzamenti
per il laboratorio on stage creato dal progetto.
Poi tocca ai signori Kraftwerk, profeti e pionieri del
digitale, artefici di certe
sonorità che tanto suonano familiari ai frequentatori
abitali della musica odierna: chiedere, tanto per dirne una,
ai simpatici e improvvisamente sminuiti daft punk, annichiliti
fino a scomparire da un confronto che definire ispiratore è
un menzognero complimento.
I classici dello spettacolo sul palco, con i quattro uomini
in ghingheri tanto stilosi quanto spersonalizzanti, sono celebri
al punto da risultare familiari e impressi fin dalle prime battute:
the Man-machine, Radioactivity, Robotrock, Autobahn, brani dall'ultimo
lavoro dedicato al Tour de France, con ripetizioni, inni alienati
all'ineluttabilità del progresso, alla ripetizione seriale,
alle icone del novecento industriale fatto di pillole, auto
e robot, con il consueto senso di straniamento che ricostruisce
sensazioni da spettacolo riprodotto.
I quattro, alle prese con i potenti e moderni portatili-sintetizzatori,
costruiscono un copione che risulta, alla fine, coinvolgente
e insieme stranito, desolante e algido, anticipatore e tristemente
profetico: simbolo esemplificatore della serata, lo sfavillio
delle centinaia di luci fredde e colorate dei cellulari, rivolti
alla canonica ripresa dell'ennesimo show, da programmare e immettere
nel circuito mediale totalizzante. Che le macchine abbiano vinto?
Nel dubbio, alzo gli occhi al cielo, contemplando il sipario
stellato che chiude la notte..
Ai pensieri esistenziali sul cattivo progresso mi ribello dimenandomi
e osservando compiaciuto il dance party del folle ensemble dfa:
gli LCD Soundsystem sono una macchina che produce inviti
ineludibili al movimento, battuta house, melodie perfette, urla
da tipico punk act e battute precise e infuriate. Il responso
del pubblico? Non c'è tempo per pensare, siamo in pista,
a seguire i movimenti convulsi delle mani del singer invasato,
del tutto concentrato nei vocalizzi spremuti o alle prese con
la batteria da tempestare per dar man forte all'impatto del
groove...yeah, yeah, yeah, yeah-yeah-yeah-yeah.
In chiusura, mentre il cibo culturale e non dei tanti stand
che completano l'area Metropolitan viene preso d'assalto dal
popolo festivaliero, è tempo dei Kasabian, che
a dispetto dei detrattori eventuali propongono un rock'n roll
sporco di elettronica e psichedelia, lezioni di stile e pezzi
molto ben confezionati dai riff penetranti e tipicamente british:
vero e proprio inno dello show, la celebre "Lost souls
forever". Tra un brano e l'altro, spreco di "thanks",
"grazie Napoli" e pensieri commossi allo strazio londinese
rimbalzato in giornata in tutto il mondo.
Secondo giorno, 8 luglio, l'attacco dello show è
simile: l'emozione palpita nell'aria, l'atmosfera, come annunciato
dalle prime sensazioni, è proprio quella tipica dei festival,
e il popolo napoletano sembra finalmente testimoniare la necessità
di un certo tipo di proposte musicali e culturali: aprono la
giornata i Songs For Ulan, tristezze svisate da un corpus
strumentale che comprende le sonorità evocative e intense
di contrabbasso elettrico e violoncello, artefici di una sonorità
personale e con echi jazz.
Gli Hood disseminano il loro caratteristico sound elaborato,
voce in secondo piano e effetti elettronici che frammentano
le linee melodiche con beats e battute sparse all'interno dei
brani, costruiti da un'anima sonora distesa su cui c'è
un gustoso ed emozionante lavorio sintetico. Grande attesa per
i Karate, col cantante Geoff Farina ormai di casa: molti
ricordano un concerto napoletano ormai storico di qualche anno
fa, con una platea delle grandi occasioni a testimoniare un'anomalia
insolita e piacevolissima, inedita dalle nostre parti. Il solido
impianto di questo gruppo dal nome marziale poggia sul blues
e sul jazz, con la semplicità del suono che costituisce
un seducente equilibrio per l'ascoltatore: sound asciutto, secco,
improvvisazione nei limiti, songs riuscite, album di culto e
voce ormai riconoscibilissima. Siamo dalle parti del tramonto,
la luce cala, l'entusiasmo invece se ne guarda bene. Il pubblico
accompagna con attenzione le varie esibizioni, pur concedendosi
passeggiate e fori zona, tra chiacchiere e comportamenti tipici
della cultura da festival, impiantata e destinata (gli auspici
ci sono) a lunga vita anche qui al sud.
Ai
Marlene Kuntz il compito di rimpiazzare la delusione
per gli Afterhours saltati appena ieri, quali altri attesi alfieri
dell'indie rock dei '90: Cristiano Godano non ha perso un oncia
del suo carisma, e il concerto di Marlene ripaga la folla in
calca. Dai brani di "Catartica" all'ultimo "Bianco
sporco", c'è spazio per la poesia, le distorsioni,
i cori, le nostalgie: "Nuotando nell'aria", "Festa
mesta"(!), "Canzone di ieri", "1°2°3°"
(!!), "Ineluttabile" (!!!)., "Agave", "A
fior di pelle"
Mentre il tramonto libera il nero
notturno, non c'è tempo per pensare, di fronte al concerto
di una band legata indissolubilmente ai fasti irripetibili del
passato, ma, certamente, viva e ben più che vegeta, impreziosita
dall'apporto di personaggi come Rob Ellis e il vecchio amico
già impegnato nell'ultmo album di studio Gianni Maroccolo.
E l'Arena? Già , tocca a Tom McRae, intimista
cantautore rockeggiante che trasuda sentori buckleyani e sensazioni
folk. Prima che la rossa Tori Amos dia sfogo alle nervature
uterine e sensuali nel corso di un esibizione dove eros e psiche
scivolano via lungo le mani bianche attraverso i tasti percosso,
sfiorati e animati. Tori,
si divide tra organo e piano, in mezzo, dimenandosi e librando
l'ugola lungo saliscendi di pathos, ammantati di fragilità
e nevrosi, specchio sonoro di una personalità senza dubbio
tormentata, fitta di anime erranti e storie da cantare. Spazio
per la Principesca e rabbrividente "Purple rain",
con il rosso della chioma che stinge soffusa, perdendosi nei
movimenti che assecondano la vocalità nuda e passionale
della nostra. C'è lo stesso cielo di ieri, ma le sensazioni,
volgendo lo sguardo in alto, sono più vive che mai.
Verso
le 23,30 sale sul palco la vera attrazione della seconda serata
del festival: Nick Cave. La sua esibizone, a posteriori,
è valsa da sola il prezzo del biglietto. Accompagnato
dall'immenso Warren Ellis al violino e da una sezione ritmica
composta da Martin Casey al basso e Jim Sclavunos alla batteria,
il cantautore australiano, seduto al pianoforte, ha inebriato
i presenti, pescando a piene mani da un repertorio quanto mai
vasto e di notevole livello. "The Ship Song", una
rallentata "The Mercy Seat", "The Wepping Song"
hanno reso omaggio al suo passato mentre "Get Ready For
Love", "God Is The House", "Hiding All Away"
sono state alcune delle gemme che ben hanno rappresentato il
presente di "Re Inchiostro". Un concerto denso di
pathos ed energia, a testimonianza che per il quasi cinquantenne
Nicholas Edward Cave il tempo sembra essersi fermato. Neanche
il tempo di riprendersi dalle emozioni dello strepitoso live
appena concluso, che il pubblico del festival si riversa nuovamente
nell'area del Metropolitan Stage per godersi l'eclettico dj-set
di Andi Toma (dei Mouse On Mars), in vena di sperimentazioni
e di bizzarre contaminazioni sonore. Andi mixa con disinvoltura
brani dal palpitante incedere dub con estratti di dischi dei
Mouse On Mars, sovrappone il celeberrimo riff di "Smells
like teen spirit" dei Nirvana con glitch e beat sintetici,
alterna l'electro bizzarra di MU con classici new wave anni
'80. Un dj set molto divertente, accompagnato dalle originali
e coinvolgenti proiezioni video realizzate dal vivo dal collettivo
di vj-s bolognese "Polivisioni", che interagiscono
col dj afidandogli una micro telecamera con cui egli stesso
realizza dei mini-loop video della sua performance.
Nel complesso: una due giorni memorabile, in cui si è
vissuta per la prima volta a Napoli, finalmente, la sensazione
di trovarsi in un grande festival. Che, c'è da scommeterci,
già dalla prossima edizione non avrà niente da
invidiare ad analoghi eventi a livello europeo.
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