David Sylvian - 6 Ottobre 2003 - Teatro Smeraldo - Milano
La mia ultima per Sylvian risale al tour precedente quello per intenderci di "Everthing and nothing"sempre allo Smeraldo due anni fa. Lo spettacolo è simile per tenacia artistica e spettacolarità. David Batt in arte Sylvian questa volta è accompagnato dal fratello Steve Jansen e dal poliedrico artista giapponese Takagi Masakatsu. Davanti ad una platea sicuramente più numerosa di quella della tappa scorsa, Sylvian presenta il suo ultimo lavoro "Blemish" prodotto dalla SamadhiSound etichetta nuova appartenente a David.
Fatica concentrica e tortuosa, un progetto scapigliato e minimale esasperato all'infinito da rumorosità ed elettronica, baciato dall'inconfondibile voce del bel David (l'uomo più bello del mondo come fu definito) ammaliante e persuasiva. Ottanta minuti bis inclusi (ma i concerti non duravano di più? sarà minimalismo anche questo?) di grandi atmosfere. Si comincia con " Blemish" la title track, quindici minuti di psicodrammi sonori ed eleganze darkeggianti, (il pubblico sembra non gradire è distratto, sarà troppo sperimentale?) poi brani come "The good son", "The only daughter"quest'ultima vera è propria creatura del Sylvian più intimista e pudico.
Una prima parte tutta di "Blemish", ottimamente accompagnata dall'estro indiscutibile del fratello Steve (suona le tastiere, il sinth è la batteria elettrica) che assieme a David creò uno dei gruppi più raffinati del panorama rock internazionale i Japan, e dall'illustratore virtuale è video installatore giapponese Takagi, che si cimenta a proiettare immagini molto toccanti tratte dall'infanzia del mondo, dirottati in una visione psichedelica e diretta, parallela ai suoni industriali e periferici di "Blemish", un connubio inscindibile in questo tipo di spettacolo.
La seconda parte è il Sylvian più" comune", quello after- Japan, dei progetti cantautoriali (con quella voce può sfidare chiunque!) quello "triste" e comunemente associabile al grigio perenne dell'amata Inghilterra, quello acclamato dal pubblico, (lui gradisce è ringrazia) quello che lo ha reso famoso in Italia più che in altri posti (più della metà del tour europeo è incentrato nella penisola).
Fra le perle suonate, una versione unplugged ammirevole e blueseggiante di "Jean the bird man" brano fortunatissimo nato dalla collaborazione con il frontman dei King Crimson Robert Fripp negli anni '90.
Il pubblico acclama"Orpheus", "September" (pezzi cardine di "Secrets of the Beehive"), ma David sorridendo li schiva tutti proponendo perle non meno belle come "Pulling punches", e l'inedita "World citizens"prodotto dalla collaborazione con il "fratello"giapponese Sakamoto.
All'uscita dal teatro si ha la sensazione malinconica di aver assistito ad una performance di un artista che lascia indubbiamente un senso teso d'allegra disperazione, un mantra infinito di chiara bellezza .
Ammaliante!!!
Luigi La Delfa

Sin Ropas + Franklin Delano, Napoli, Slovenly rock 'n' roll bar, 7 ottobre 2003
Il concerto sembrava quasi fosse ispirato dalle difficolta' acustiche che c'erano quella sera, per nulla sembrava creassero problemi, non il minimo accenno di annientamento o fiacchezza più che altro una via di accesso alla naturalezza dell'interpretazione. L'album scritto a due mani, quelle di Tim Hurley e Danni Iosello, "Trickboxes on the pony line", è stato il soggetto/oggetto di rappresentazione focalizzante, soprattutto data l'assenza del bassista Noel Kupersmith.
Con gli effetti di loop della sua chitarra, Tim e' riuscito a pieno nella tessitura melodica, alternando momenti di intensa riflessione attaverso uno stile scabro ed intensamente suadente, ad un magma sonoro più inspessito, circuìto da una voce, la sua, che non lasciava spazio all'immaginazione, permeando le ritmiche tra loro simili della batteria, di un fascino narrativo intimo, ed estremamente efficace. Anche "Rabbit dreams" estrapolata dal bellissimo e cupo "Three cherries" ha fatto la sua figura, rappresentando al meglio la perfetta fusione di un eclettico chitarrista seguito dal fedele, in questo caso dalla fedele compagna, la quale rispondeva perfettamente alle solipsistiche richieste del "Signor Hurley". "Butter on cane" e "Candy cobra" sono state a mio avviso le rivelazioni di un live che necessitava soprattutto di una voce elaborata alpunto tale da incantare, ammaliare, ed è proprio ciò che si è verificato attraverso queste due canzoni...i Red Red Meat della nuova generazione? Molti erano i momenti che intrecciavano il tessuto narrativo ad occasioni di sfogo sonoro fra voce e "chitarre", per cosi' dire, e con loro tastiera e batteria, il tutto teso ad equilibrare un lavoro rielaborato per il pubblico, e per questo motivo da rispettare!
Un tuo vicino di casa che ti racconta una storia dunque, ha l'aria di una persona complessa, ricca interiormente, libera, dotato di tutto lo charme possibile nonché di una gran capacità espressiva.
A far loro da supporto, il gruppo emiliano/ napoletano Franklin Delano, che ha sorpreso la suddetta soprattutto nell'approccio live...peccato per la voce di Paolo, prima chitarra, poco recettibile data la difficolta' della sera. Ogni dilatazione dispersiva del primo veniva ricomposta e ricucita con solerzia da Marcella, ex Massimo Volume. Sia nella voce di accompagnamento che nell'arrangiare la chitarra, riusciva a completare il cerchio di ogni singolo pezzo rendendolo talora più definito e potente, talora leggero come teso sull'evanescenza....rispetto all'ascolto del demo, ho preferito di gran lunga il loro duetto dal vivo, anche se non sempre veniva contornato da una batteria che meglio esaltasse quelle stesse sentite emozioni.
"Question" in definitiva è stato il pezzo proposto di gran lunga più interessante, l'ultimo in ordine di esecuzione , è riuscito ad attirare l'attenzione su di se, persino del batterista che pareva fosse altrove, elaborando un percorso catartico: dal suono puro e compiaciuto di una chitarra dilatata allo spazio riempito di voci e calzanti ritmiche di impronta psichedelica. Non male come inizio.
Lorenza Ercolino

Wire - Roma, INIT - 9-10-2003
Nella sezione interviste di questa webzine c'è quella a Colin Newman che suggerisco di leggere a chi sapesse poco o nulla sui Wire, mentre il resoconto del live può solo confermare il concentrato di potenza e furia iconoclasta a cui ci siamo esposti.
Non sappiamo spiegare bene cosa sia successo su quel palco, ma sotto è stata attonita impotenza scossa da timidi vagiti e singulti interiori che han richiamato la nostra parte più istintuale, più punk. Punk come la valenza ideologica della musica dei Wire, perchè stilisticamente, oltre ad aver contribuito alla sua definizione, lo hanno pure ampiamente superato, macinandolo. Facile cadere quindi nella credenza (rafforzata dall'età dei protagonisti) che oggi i Wire on stage siano un dispiegarsi di forze elettroniche: errore! La vertigine che sentiamo è primordiale, il vuoto generato è reale e palpabile, non un suo surrogato sintetico. E contiene anche una forza innovatrice come solo una musica nata e suonata nel '77 può avere (il primo album dei Killing Joke o la voce di Mark E.Smith dei Fall possono aiutare nel rendere questo concetto). Unico dubbio: 50 o 60 minuti così son sufficienti?
A.Giulio Magliulo

 
 
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