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Franklin Delano
Autori quest'anno di un disco bellissimo come "Like a
smoking gun in front of me", i Franklin Delano - tornati
da poco dagli Stati Uniti, che hanno attraversato in un tour
estenuante - sono ormai una delle più apprezzate band
del "panorama indipendente italiano".
Per conoscerli più da vicino abbiamo fatto qualche domanda
a Paolo Iocca (cantante/chitarrista della band), che
ci ha spiegato - tra le altre cose - del rapporto particolare
che il trio emiliano (ma Paolo è nato e cresciuto a Napoli)
ha con l'America, con la "canzone" e con i "fratelli
maggiori" Califone
di: Daniele Lama
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Siete
tornati da poco dagli States. Con quale spirito avete affrontato
questo tour? Quali erano le vostre aspettative? Sono state disattese
o potete considerarvi soddisfatti?
Il tour si prospettava molto duro (e così in effetti
è stato), quindi ci siamo preparati molto, sia fisicamente
che spiritualmente. Eravamo consapevoli che rispetto agli artisti
americani, noi siamo un po' viziati. Sound checks, alberghi
e cene pagate, drink tickets a volontà. Tutto questo
non è affatto scontato laggiù, a causa dell'enorme
inflazione di artisti che vogliono emergere suonando dal vivo.
Ogni sera almeno tre bands e un veloce line check. 5 minuti
per montare il backline e provare se tutto è a posto,
5 minuti per tirare giù tutto, mentre già il gruppo
successivo sta montando la propria strumentazione. Aggiungi
a questo il fatto, non da sottovalutare, che i nostri strumenti
erano quasi per intero presi in prestito da vari amici di Chicago,
e che quindi abbiamo dovuto fare un po' con quello che avevamo.
La media di 800 km al giorno, un day off ogni 7/10 giorni, 24000
km totali alla fine del tour.
Qualche band più giovane avrebbe forse potuto risparmiare
qualche dollaro in più facendosi puntualmente ospitare
da qualcuno ai concerti, ma a volte le situazioni in cui rischiavamo
di incappare (e nelle quali a volte siamo incappati) erano a
dir poco scomode. Spesso abbiamo preferito investire in "salute
psicofisica" cercando un motel - peraltro molto economici
dappertutto.
Abbiamo visto paesaggi e situazioni, conosciuto persone e frequentato
artisti indimenticabili. Siamo tornati a casa arricchiti enormemente
da tutto ciò che abbiamo vissuto laggiù.
Certo non sono mancati momenti di nervosismo, visti i ritmi
che abbiamo sostenuto.
In definitiva siamo certamente soddisfatti e orgogliosi di essercela
cavata egregiamente, sia a livello tecnico (credimi, la qualità
media delle "local bands" negli USA è altissima)
che a livello psicofisico. In molti erano preoccupati per la
nostra tenuta, Califone e File 13 per primi. Poi ci hanno visti
dopo la prima tranche, al concerto all'Empty Bottle a Chicago,
e hanno tirato un sospiro di sollievo
eravamo ancora interi,
in forma e col sorriso sulle labbra.
Riguardo il vostro precedente soggiorno in America e il lavoro
fatto insieme a Brian Deck e ai Califone: ci puoi raccontare
qualche aneddoto? Ci parli delle sensazioni che vi ha dato questo
rapporto - sul piano sia umano che professionale - e il suo
apporto alla versione "definitiva" del disco (che,
se non sbaglio, era stato già registrato interamente
in Italia
)?
Per me lavorare con Brian e con i Califone, nello studio dove
hanno preso vita dischi tra i miei preferiti di sempre, è
stato un sogno realizzatosi e il coronamento di un lavoro di
squadra che ha coinvolto Onga, il nostro manager, Madcap Collective
e molte altre persone che, al momento giusto, hanno influito
consciamente o meno, sulla buona riuscita del nostro progetto,
a cominciare dallo stesso Stefano Pilia.
Da Brian e dai Califone abbiamo imparato la calma e la serenità
nel fare le cose, la scioltezza nella sperimentazione, l'abbandono
di ogni preoccupazione riguardo il rispetto di "consuetudini".
Abbiamo imparato l'amore e la passione per l'evento.
Abbiamo avuto anche il tempo di divertirci talvolta, alla sera,
dopo le sessions giornaliere. Ricordo ancora quella volta in
cui ci siamo fermati in un pub vuoto, che secondo Brian era
una copertura per affari di altra natura (eravamo nel quartiere
italiano). Ricordo ancora cosa passava il juke box: "Cat
Scratch Fever" di Ted Nugent.
È chiaro che lavorare con Brian ci ha salvati da un rischio
molto reale: "subire" un missaggio all'italiana (o
all'inglese) su un prodotto che per sua natura meritava un trattamento
molto particolare. Abbiamo pensato che nessuno meglio di Brian
avrebbe potuto interpretare il nostro sound. Suppongo che anche
lui abbia pensato la stessa cosa, visto che ha dimostrato di
voler lavorare con noi a tutti i costi.
I Califone hanno farcito un disco comunque già confezionato,
di piccole ma stupende gemme. I loro sono quasi tutti brevi
inserti di vari strumenti, a parte il violino di Jim Becker
su "Me And My Dreams". Guardandoli all'opera abbiamo
cercato di carpire il loro segreto
chissà se ci
siamo riusciti. Lo capiremo solo quando registreremo un nuovo
album.
Ai Clava ci siamo sentiti come a casa. Non abbiamo mai avuto
l'impressione di correre dietro al tempo e allo stress. È
stata un'esperienza estremamente rilassante.
Insomma: è molto probabile che Brian metta le mani anche
sul nostro prossimo album e che i Clava studios siano ancora
utilizzati dai Franklin Delano - se non in toto, almeno per
una parte del lavoro
Qual è il vostro rapporto con la "canzone"?
Ascoltando i vostri brani sembra ci sia una sorta di attrazione/repulsione
nei suoi confronti
Hai colto un punto importante del nostro stile. È vero,
i nostri brani sono sempre cresciuti in una sorta di odio/amore
per la "forma-canzone". A noi piace sperimentare,
ma il materiale di partenza è sempre abbastanza orecchiabile
e strutturato. Inutile dire che a un certo punto ho smesso di
vedere questa incongruenza tra struttura e sperimentazione come
un problema. Probabilmente la forma-canzone è destinata
ad avere un ruolo sempre più preponderante nella nostra
musica con il passare del tempo, mentre la sperimentazione diverrà
molto più sottile e microscopica, a volte interna alla
stessa struttura.
Dal vivo la vostra musica sembra tendere al raggiungimento
di uno stato di catarsi, o quasi di "trance". In concerto
i vostri brani mostrano una spontaneità e una naturalezza
tale che mi viene da pensare che siano tutti nati da delle jam
session in libertà
è così?
L'idea è sempre quella di "incantare" l'ascoltatore
e fare in modo che si perda nei meandri del nostro suono. Certo,
abbiamo molte parti "free-form" all'interno dei nostri
brani, che abbiamo imparato a gestire e cavalcare insieme non
solo grazie alle jam in sala, ma anche grazie ai tanti concerti
effettuati. A un certo punto infatti, prendi così tanta
dimestichezza con le tue parti e con il modo in cui queste interagiscono
con le altre, che inizi a muoverle incessantemente. L'ascolto
reciproco - su cui il nostro sound si fonda - fa il resto. Se
uno di noi tre modifica una propria parte, gli altri seguono
con naturalezza il flusso creato. Difficile da spiegare, molto
semplice da capire assistendo a un nostro concerto
In che modo l'ingresso nella band di Vittoria Burattini ha
influito sulla definizione del vostro sound attuale? Cosa ha
determinato questo cambio nella line-up?
Nel 2003, quando la transizione è avvenuta, io stavo
già da un po' componendo brani molto lenti e catartici.
Marcella era sulla stessa lunghezza d'onda e le sue parti erano
molto "ambient". L'idea era quella di reiterare il
groove e farlo crescere in modo costante e coerente. Samuele,
il batterista precedente, non sentiva questo aspetto come preponderante,
insistendo invece su variazioni continue sul proprio strumento.
Questo "spezzava" continuamente questo groove di cui
noi due eravamo in cerca. In realtà Samuele non avrebbe
comunque potuto dedicare il100% del proprio tempo alla band.
Vittoria aveva lo stile giusto per creare il "gorgo"
che cercavamo ed era più pronta di Samu al passaggio
da band "dopolavorista" a band "full-time".
Bologna: città in fermento, ricca di stimoli e di
buona musica o piccola realtà provinciale dalla quale
fuggire appena possibile?
Ci si può lamentare del posto in cui si vive e lavora,
si può andare via, o ancora, si può influire per
cambiarlo. Bologna per me è una città come un'altra,
in un paese come un altro. Non mi sento particolarmente bolognese
- sai benissimo che sono nato e cresciuto a Napoli - e non mi
sento neanche particolarmente italiano. Mi sento libero di vivere
ovunque mi venga voglia e di sentirmici a mio perfetto agio.
Ciò non toglie che ogni posto ha potenzialità
specifiche che è necessario riconoscere e valorizzare.
Bologna è un posto di grande fermento culturale. Questo
a volte può aiutare chi tenta di far arte.
Nuovi progetti in cantiere
?
È in arrivo il video di "Please Remember Me",
curato da Vittorio Demarin, nostro grande amico e artista poliedrico
di grande spessore (anche lui su Madcap Collective, sia con
i Father Murphy che con i propri dischi e progetti multimediali).
Stiamo sia lavorando a un tour europeo che a ricuperare le lacune
del nostro scorso tour italiano di Marzo, piuttosto breve a
causa di altri nostri impegni e del sopraggiungere delle date
americane.
Quindi saremo di certo molto impegnati a suonare in giro per
l'Italia, sia durante l'estate che in autunno. Il resto è
una sorpresa.
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